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Crisi economica: dagli USA all’Europa, eccone la genesi

 

Le crisi sono una costante della storia economica: possiamo dire che l’ andamento della storia è scandito dai periodi critici siano essi temporanei e quindi risolvibili o irreversibili.
L’ evento scatenante che ha dato origine alla crisi ed è rimasto nella memoria di tutti è stato il fallimento di una delle istituzioni più ricche e potenti dell’ economia occidentale: era il 15 Settembre del 2008 quando il fornitore globale di servizi finanziari Lehman Brothers dichiarò bancarotta. A fare un passo indietro possiamo individuare il periodo fatale negli anni ’90: con l’ intento di rendere più efficienti le economie, i governi iniziarono a mettere in discussione i principi che regolavano il mercato finanziario, considerato ingessato da sistemi troppo restrittivi. Pareva essere a portata di mano un vero Bengodi finanziario. La globalizzazione e l’ espansione avrebbero potuto portare ad un aumento della ricchezza e dalla domanda, la piena occupazione ed entrate fiscali abbondanti.

Dalla fusione delle vecchie banche nacquero i nuovi giganti della finanza, investimenti puramente finanziari di dimensioni oltre il lecito e la comprensibilità. Basti pensare che nel 2006 il valore giornaliero degli scambi sui mercati finanziari superava di sessanta volte quello del commercio mondiale. I nuovi giganti della finanza si definivano “too big to fall”, troppo grandi per fallire, un’ affermazione che racchiudeva una minaccia non troppo sottile; queste istituzioni erano così grandi che i loro interessi così ramificati e diffusi, nonchè il loro fallimento, avrebbero travolto tutta l’economia. La finanza in quel modo divenne autonoma rispetto all’ economia reale: essa sembrava vivere di vita propria, ma un sistema di questo genere non può reggersi a lungo. Solo gli Stati Uniti sarebbero potuti intervenire per far fronte a problemi e “défaillance” di questi colossi; gli USA però non solo non vigilarono con attenzione ma addirittura si fecero coinvolgere dall’ euforia, mentre il mercato diventava complice della creazione di un disastro che li avrebbe poi di fatto travolti in misura più o meno intensa.Tutto il mondo era indaffarato a produrre per quel mercato inesauribile che investiva per essere più competitivo e produttivo, nessuno volle chiedersi se una simile situazione fosse sostenibile e cosa fosse accaduto al normale succedersi dei cicli economici di espressione e di contrazione: quando le cose vanno bene a nessuno piace avere dubbi.

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I problemi, in realtà, si stavano accumulando. Uno dei settori in cui la finanza statunitense aveva deciso di entrare a caccia di nuovi profitti era quello dei mutui per l’acquisto della casa: questo settore risentiva, però, degli stessi problemi dell’ economia globale citati in precedenza; il sistema poteva reggersi solo finché il mercato immobiliare avesse continuato a crescere, il rischio era quindi altissimo. Pochi uomini dell’amministrazione USA e pochi idealisti osarono sollevare il tema senza ottenere però ascolto: nella seconda metà del 2007, l’indice dei prezzi delle case iniziò a mostrare segni di cedimento dopo anni di crescita e, con un ritardo di circa 6 mesi, anche la Borsa di New York virò in negativo. La crisi esplose ed i prezzi delle case crollarono del 10 %, i corsi azionari del 40 %, l’ economia si contrasse del 3,3 %. Nel 2009 tutti gli indicatori economici degli USA segnavano profondo rosso: il Pil -3,1 %, la borsa – 21,5 %, i prezzi delle case -5,5%.

Le banche in tutto il mondo scoprirono di avere nel portafoglio “titoli tossici”; gli Stati Uniti si resero subito conto di quanto la situazione fosse grave ed intervennero per impedire il fallimento delle banche, perchè il costo sociale ed economico del fallimento di una grande banca sarebbe stato insostenibile. Il caso Lehman Brothers, l’ unica banca in crisi lasciata fallire, mostrò quali fossero le conseguenze di un tale evento e la prassi divenne quindi il salvataggio pubblico. Questi interventi necessari e di emergenza ridussero in gran parte quelle risorse che erano destinate all’ attuazione di piani di politica economica allo sviluppo. Sempre limitandoci al caso statunitense, che in questa fase è l’ epicentro dalla crisi globale, possiamo dire che complessivamente si riuscì a impedire che la crisi degenerasse in un tracollo del sistema economico simile a quello del 1929. Negli USA, l’ intervento dello Stato ha avuto successo, almeno per il momento.

Per quanto riguarda l’ Europa, caso eclatante di crisi fu quello di BNP Paribas, che non fu in grado di stabilire il valore di alcuni principali titoli detenuti;  in questa dichiarazione è ben rappresentata la follia della situazione in cui una delle più importanti banche d’ Europa versava: fu costretta ad ammettere che i prodotti finanziari trattati erano così complessi e poco trasparenti da non sapere quanto valessero.
Lo Stato britannico fu costretto a nazionalizzare la Northern Rock per fermare la corsa al ritiro dei depositi, la banca era talmente esposta su titoli finanziari sofisticati da non sapere più quanto valessero i suoi investimenti. Poi toccò a Ubs e Citigroup annunciare perdite per svariati miliardi di dollari. Il Governo di Dublino reagì alla crisi delle banche che non riuscivano a rientrare dai prestiti immobiliari, accollandosi i debiti di bilancio pubblico. Nello spazio di un mattino il Paese si risvegliò povero.

Nel 2009 fu il turno della Grecia. Il nuovo Primo Ministro ellenico annunciò che il Paese aveva un deficit annuale pari al 12% del Pil, molto maggiore di quanto falsamente dichiarato dal Governo precedente e del tutto al di fuori dai parametri di Maastricht.
Se fino a prima della crisi i Titoli di Stato europei, per lo più quelli in euro, erano considerati investimenti sicuri, dopo il 2007, per comprare titoli di Paesi con elevato debito pubblico ed economia poco competitiva, si richiese un tasso di interesse molto più alto. Inizia così l’ era dello Spread, nella quale moltissimi preferiscono puntare su titoli sicuri anche a rendimento nullo, e ridurre investimenti in titoli emessi da Paesi come la Spagna e l’Italia.
È questa la seconda fase della crisi. I Paesi “epicentro” della prima fase – Stati Uniti e Regno Unito – riescono a defilarsi sfruttando la possibilità delle banche centrali di farsi prestatore in ultima istanza. Saranno necessari circa due anni ed una gravissima crisi finanziaria economica e sociale perché l’ Europa inizi a dotarsi di strumenti per la gestione comune delle difficoltà di bilancio:  il primo passo è stato l’ istituzione nel 2010 del “fondo salva Stati” che eroga prestiti onerosi ai Paesi in difficoltà, un fondo valido solo fino al 2013. I primi Paesi ad usufruire del fondo sono stati Portogallo, Irlanda e soprattutto Grecia. Alle misure di sostegno sono seguiti una posizione di rigidità politica e di conti, parallelamente ad ordine ed austerità. Questo tipo di politica economica, in un momento di crisi, ha avuto ripercussioni molto pesanti ed è stata insostenibile per parecchi popoli europei così come per gli investitori internazionali.

A salvare la situazione è intervenuta la decisione del Consiglio Europeo nel 2012, che ha dato la facoltà di acquistare titoli pubblici dei Paesi in difficoltà quasi senza limiti quantitativi; da allora il differenziale – lo Spread – è andato riducendosi ed avvicinandosi a quanto è giustificato dal differente stato di salute dell’ economia. Questo ha bloccato la deriva che avrebbe messo in pericolo la stessa esistenza della valuta comune europea, ma se la situazione della zona euro è ancora preoccupante, quella dell’ Italia lo è di più: gli investitori che avevano scommesso contro l’ euro avevano individuato nell’ Italia un punto debole dell’Europa, in particolare per l’ entità del debito pubblico e per la nostra difficoltà a ridurlo in modo definitivo. Un altro elemento del problema è l’ ormai cronica incapacità dell’ economia italiana di crescere. Tutti gli anni 2000 sono stati finora caratterizzati da una sostanziale stagnazione. Il primo canale attraverso cui l’ economia italiana è stata colpita dalla crisi è stato quello delle vendite all’ estero. I nostri principali partners sono andati tutti in crisi contemporaneamente e hanno fortemente ridotto gli acquisti di beni italiani; la crisi si è dunque avvitata su se stessa con la conseguente difficoltà, da parte delle imprese, di restituire i crediti alle banche. Le piccole aziende stanno ricorrendo massicciamente alla cassa integrazione, ritardando i pagamenti ai fornitori; iniziano così i licenziamenti ed i fallimenti delle aziende più deboli.

La situazione sembrò migliorare nel 2010, ma si trattò di una breve illusione, quando la seconda fase della crisi investì in pieno l’ Europa ed in particolare l’ Italia, individuata come uno degli anelli deboli della catena. Il nostro Paese venne quindi preso di mira dalla speculazione internazionale; la poca disponibilità del Governo ad assumere impegni fece aumentare la sfiducia. Sui mercati lo spread crebbe ancora, oltre i 500 punti, livelli che resero impossibile la gestione del debito pubblico italiano; a novembre 2011, al tramonto  dell’esecutivo di Silvio Berlusconi, Mario Monti divenne il nuovo Presidente del Consiglio. Monti riuscì ad agire sul fronte della riduzione delle spese solo nei primissimi tempi del suo Governo, varando una nuova riforma delle pensioni; ma si trovò ben presto invischiato in situazioni sempre più complesse, pur mantenendo una buona caratura dell’ Italia nei confronti dei partners europei e dando un’ immagine dello Stato italiano responsabile e vigile; dopo di Monti, il Governo Letta e poi il Governo Renzi con la storia dell’ ultimo anno che tutti conosciamo.

E’ chiaro che dobbiamo trovare una nuova via d’ uscita; le vecchie ricette ci hanno lasciato un’ economia a bassa efficienza, una spesa pubblica eccessiva sostenibile, un debito pubblico record, una bassissima crescita economica. Alcuni problemi hanno radici antiche nel nostro Paese, come la presenza massiccia della criminalità che condanna il Sud del Paese al poco sviluppo, la corruzione, i costi dell’ energia sensibilmente più alti dei nostri Paesi contraenti. Si deve in primo luogo stabilire quali siano le priorità per il nostro Paese, qual è il posto dell’ Italia in Europa e qual è il contributo positivo che possiamo dare in locazione al nuovo mercato mondiale. I disastri economici che hanno ridotto a mal partito varie Nazioni europee e che hanno messo in grave difficoltà anche l’ Italia non dipendono dall’ Unione Europea, ma dalla disunione del Continente. La mancanza di una vera dimensione politica impedisce di prendere quelle decisioni che possono andare alle radici dei problemi e fermare la speculazione, mettendo fine alla crisi.

Anche in Europa, magari proprio partendo dall’Europa, è ora di rivedere le cose nella giusta prospettiva. La finanza ha un ruolo importantissimo, ma pur sempre di supporto ai settori produttivi. I soldi alle banche servono per fare investimenti finanziari: case da costruire industrie da realizzare, infrastrutture, garantire pensioni per il futuro… a livello generale si è fatto purtroppo molto poco. Le attività di investimento più rischiose e più remunerative hanno una loro utilità generale, ma devono essere svolte da soggetti diversi, meglio in grado di valutare i rischi e di sostenerli senza generare conseguenze sul sistema.

Tratto dal Capitolo 9 del libro:
“Quale futuro per l’ Europa?” (Bur Rizzoli 2014)
Il testo dal quale è tratto questo articolo è stato scritto da Alfredo Mariotti