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Perché è sbagliato abolire il finanziamento pubblico ai partiti


Vado controcorrente: in linea di principio sono a favore del finanziamento pubblico ai partiti. Un finanziamento economicamente moderato, controllato, trasparente e regolato. Ma comunque pubblico. Sull’ondata dello scandalo di Tangentopoli, nel referendum abrogativo del 1993, il 90% del popolo italiano ha votato per eliminare il meccanismo di finanziamento pubblico dei partiti. Che tuttavia è stato reintrodotto nel 1999, sotto forma di rimborso delle spese elettorali. Su un’altra ondata mediatica, questa volta legata ai costi della politica, nel 2013 si è legiferato il passaggio dal finanziamento pubblico a quello privato (in regime dal 2017). Ma è concettualmente giusto abolire completamente il finanziamento pubblico ai partiti? Ecco quattro motivi per pensare il contrario.

1) Dare a tutti la possibilità di fare politica. Perché è inutile nascondersi dietro false rappresentazioni della realtà: raggiungere la possibilità di essere eletti ha un costo. Aumentano le spese dei partiti, che sono diventati organizzazioni complesse e massicce. Crescono anche le spese elettorali, dal momento che i candidati politici investono sempre più in comunicazione mediatica per ottenere visibilità. In un Paese democratico l’uguaglianza si declina nel sociale, nell’economia e deve riguardare anche la politica: chiunque deve poter avere i mezzi economici per essere eletto. La politica non è un’esclusiva di pochi ricchi, ma deve rappresentare una possibilità per tutti.

2) Chi c’è dietro un finanziatore privato? Innanzitutto, secondo il principio della trasparenza, devono essere elencati e diffusi i nomi di tutti i finanziatori dei partiti. Cosa di per sè non facile: come riportare i nomi di tutti coloro che hanno destinato il proprio 2×1000 ad un partito, senza scontrarsi con il diritto di privacy? Ma anche prescindendo dalla pubblicazione di tutti i nomi, chi garantisce che qualcuno non sia un prestanome? Che sia l’ultimo braccio di un’organizzazione criminosa o mafiosa?

3) Eliminare gli interessi privati nella politica; preservare gli interessi, pubblici e sociali, della politica. Sembra un banale gioco di parole, ma il concetto è critico. Io ti do i soldi, ti permetto di sostenere la campagna elettorale e di avere più visibilità del tuo avversario; tu, politico, difendi i miei interessi. O quanto meno non li intralci. Lasciare esclusivamente in mano di imprenditori privati il finanziamento dei partiti può portare a questa deriva. Ma proviamo a non considerare la possibilità di uno scambio illecito di favori. Proviamo a non essere prevenuti e disfattisti. Anche senza nessuna richiesta esplicita, un partito potrebbe sentirsi grato al suo finanziatore e perciò avere un trattamento di riservo nei suoi confronti. Tutto ciò si contrappone al senso stesso di fare politica: servire l’interesse collettivo e non occuparsi del “particolare”, secondo la definizione machiavellica.

4) Non lasciare la politica nelle mani del marketing elettorale, dove il prodotto da vendere è il partito o un candidato politico. Se l’unica via per finanziarsi è rappresentata dai cittadini privati, inevitabilmente nasce l’esigenza di convincere le persone a donare qualcosa al proprio partito. Significa non conquistare più gli elettori per le proprie idee e proposte, bensì cercare di sedurli e di strapparli alla concorrenza degli altri partiti. Così, ecco dilagare la logica e le tecniche del marketing nell’arena politica, in cui cambia l’obiettivo della competizione politica: si confeziona un prodotto, un candidato, che deve piacere e andare incontro ai desideri delle masse.

Così come è giusto che lo Stato sostenga i partiti per garantire uguaglianza e democrazia, è altrettanto giusto ridurre i costi della politica ed evitare che i partiti sprechino tali risorse o le utilizzino per soddisfare i propri interessi personali. Per questo motivo, il finanziamento pubblico deve essere regolamentato sulla base del principio di trasparenza e non deve essere permesso a nessuno di “rubare” denaro pubblico. E’ anche vero che il finanziamento pubblico ai partiti rappresenta un costo per il bilancio dello Stato e, in un periodo di crisi del debito, è necessario tagliare la spesa pubblica. Tuttavia, c’è una cosa che non può e non deve essere privatizzata: la politica stessa.