Da sempre il segreto confessionale è stato un appiglio per coloro che vogliono confidare un segreto o una violenza subita senza che questo diventi di dominio pubblico. All’incirca 18 anni fa a San Martino di Taurianova in Calabria, Annamaria Scarfò, che allora aveva 13 anni, venne violentata da un branco di ragazzi del posto. Sconvolta dall’accaduto e preoccupata di eventuali ripercussioni sulla sorellina in caso di denuncia, la ragazzina decise di confidarsi con Antonio Scordo e Cosima Rizzo, rispettivamente il parroco e la suora del paese. I due tacquero sull’aggressione e sui responsabili pur conoscendone i nomi, motivo per cui vennero accusati, dopo che la ragazza denunciò l’accaduto, di falsa testimonianza. Lo scorso 15 dicembre, la Suprema Corte ha confermato la condanna ad un anno di reclusione per entrambi.
Secondo la ricostruzione della Corte d’Appello, Annamaria, oggi 31enne che vive sotto protezione dopo essere stata costretta a lasciare il suo paese a seguito delle intimidazioni ricevute dai familiari dei suoi aggressori, si era rivolta ai due “per ragioni diverse da quelle dell’esercizio dell’attività religiosa, perché in Don Antonio vedeva un’autorità morale”. La vicenda, purtroppo non isolata, ha spinto la Cassazione a rivedere i “limiti” del segreto professionale nei casi in cui, come per Annamaria, un ecclesiastico venga a conoscenza di reati penalmente punibili. “In simili circostanze deve avvertire le autorità – sottolineano i giudici – Il segreto confessionale non può investire qualsiasi conoscenza dell’ecclesiastico bensì riguarda solo quella acquisita nell’ambito di attività connesse all’esercizio del ministero religioso e dunque non copre tutte le confidenze delle quali viene a conoscenza”.