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I dati spaventosi della disoccupazione italiana

Disoccupazione italiana – Il tasso di disoccupazione a novembre, in Italia, è volato al 3,4%, in aumento di 0,2 punti percentuali rispetto ad ottobre. Si tratta di un ennesimo gravoso record storico, il valore più alto sia dall’inizio delle serie mensili, gennaio 2004, sia delle trimestrali, ovvero dal 1977. A lanciare l’allarme, l’Istat, secondo cui il tasso di disoccupazione dei 15-24 enni a novembre è al 43,9%, in rialzo di 0,6 punti percentuali su ottobre. Al contrario, invece, in Germania il tasso dei senza lavori è al minimo storico: a dicembre infatti è sceso al 6,5% e i disoccupati sono calati di 27.000 unità contro i 5.000 attesi dagli economisti. Gli occupati, scesi a novembre dello 0,2%, sono 48 mila in meno in un solo mese. In calo anche gli inattivi, oltre 300 mila in meno in un anno. Il tasso di occupazione, in Italia è pari al 55,5%,  diminuisce di 0,1 punti percentuali in termini congiunturali e rimane invariato rispetto a dodici mesi prima. Il numero di disoccupati, pari a 3 milioni 457 mila, aumenta dell’1,2% rispetto al mese precedente (+40 mila) e dell‘8,3% su base annua (+264 mila).

Cerchiamo di capire quali siano le cause di questo trend. I fattori sono di natura storica e strutturale, ma diciamo subito che la nostra adesione alla moneta unica ne ha accentuato le conseguenze. Il nostro paese si trascina problemi antichi; lo sviluppo impetuoso e disordinato della nostra struttura produttiva del secondo dopoguerra, è avvenuto senza una politica economica e industriale degna di questo nome ed è stato lasciato allo spontaneismo e alla creatività imprenditoriale degli italiani. E’ indubbio che questo ci ha consentito di colmare in pochi decenni il gap industriale con i paesi a più avanzato sviluppo e ha fatto di noi, la quinta potenza economica del mondo e il secondo paese manifatturiero d’Europa, ma ha lasciato intatti problemi atavici presenti nel nostro paese al momento della riunificazione : uno sviluppo diseguale tra nord e sud del paese, la presenza di organizzazioni malavitose molto potenti, gravosi problemi di ordine pubblico, la presenza di un inefficiente e corrotto sistema politico e burocratico, la dipendenza da fonti energetiche estere, una classe dirigente non all’altezza, la mancanza di capitali e di fonti energetiche. Tutto è andato discretamente bene, abbiamo prosperato e occupato spazi di mercato importanti fino a quando le nostre produzioni, da paese trasformatore, non si sono dovute confrontare con la concorrenza a bassissimo costo, del miliardo e mezzo di lavoratori delle economie emergenti, privi dei più elementari diritti sindacali, sociali e civili. Questi paesi sono diventati meta di imponenti delocalizzazioni produttive da parte delle industrie occidentali che hanno così favorito lo sviluppo di tessuti industriali in luoghi privi di manodopera specializzata e di una classe imprenditoriale al solo scopo di abbassare i costi di produzione e lucrare profitti per dirottarli poi, verso i numerosi paradisi fiscali creati all’abbisogna. Sostanzialmente i paesi ad alto tasso d’industrializzazione e con essi l’Italia, si sono buttati la zappa sui piedi andando a localizzare nei paesi poveri favorendo la nascita di una feroce concorrenza e lo sviluppo di tessuti produttivi in luoghi in cui non vi era traccia. Un tentativo maldestro di sfruttamento che si è ritorto contro facendoci perdere quote di mercato significative proprio in quei settori, come il manufatturiero, in cui l’Italia è maggiormente presente con il proprio apparato industriale.  

Il made in Italy è considerato un eccellenza nel mondo. Le nostre produzioni artigianali, il tessile e la moda, la meccanica di precisione, la produzione automobilistica sportiva, il settore agroalimentare e vitivinicolo, gli arredi, l’eccellenza della nostra cucina, unito all’immenso e straordinario patrimonio artistico e ambientale hanno fatto di noi una nazione ricca e ricercata nel mondo. I nostri borghi e lo stile di vita italiano rappresentano un vero e proprio mito internazionale, ma la mancata risoluzione e il persistere dei profondi squilibri infrastrutturali tra nord e sud, le mafie e le inefficienze di una classe politica e imprenditoriale collusa e corrotta, che ha sempre preteso una parte cospicua del bottino del nostro capitalismo all’amatriciana, insieme ad un tessuto sociale privo di senso civico e coscienza nazionale, ci hanno impedito di tenere il passo con i paesi più sviluppati e fatto progressivamente sprofondare in basso in tutte le classifiche socio economiche. Un altro grave problema che affligge il nostro paese riguarda il basso livello culturale generale della popolazione e della nostra classe dirigente. La quota di laureati e di diplomati e ampiamente sotto la media e l’impiego di manodopera con alti livelli di conoscenze, resta significativamente più bassa rispetto a tutti i paesi OCSE. Le nostre università perdono iscritti ogni anno essendo venuta meno la leva che essa produceva per ridurre gli svantaggi sociali attraverso la ricerca di un lavoro qualificato all’altezza del titolo di studio. Si tratta di un pesante tributo alla diffusa ignoranza della nostra società che sta impedendo di cogliere molte delle opportunità offerte dallo sviluppo tecnologico e a tradurle in iniziative imprenditoriali capaci di creare occupazione qualificata. In un simile contesto le nostre eccellenze non trovano terreno fertile per sviluppare le proprie potenzialità e fuggono in luoghi in cui vi è una maggiore sensibilità e rispondenza al nuovo. Il nostro sistema bancario poi, è sempre stato poco incline a finanziare idee innovative e ha fornito capitali solo a chi già li aveva facendosi complice della nostra arretratezza. Le imprese sono troppo dipendenti dai finanziamenti bancari ed è praticamente assente un mercato di corporate bond (obbligazioni aziendali) capace di drenare risorse direttamente dal mercato by passando il nodo del credito tradizionale che ha soffocato e ucciso gran parte della nostra economia reale, così come sono poche le aziende quotate alla borsa di Milano.

Sebbene la creatività italiana sia riconosciuta ed apprezzata e i nostri distretti industriali, specializzati per prodotto, siano studiati all’estero, il paese manca di grandi industrie e ha perso e purtroppo continuerà a perdere, fondamentali settori produttivi ceduti a società estere, inoltre è talmente frammentato in una miriade di piccole e medie aziende (oltre 4.100.000, ovvero il 95%  di tutte le imprese in Italia) da risultare privo di forza contrattuale in tutti gli organismi decisionali europei ed internazionali. Analizzando gli effetti delle due ondate recessive, del 2008-2009 e del 2011-2013, sulla produzione industriale, si evidenzia chiaramente come l’Italia e la Spagna abbiano perso, rispettivamente, quasi un quarto e un terzo del prodotto industriale. La Germania ha recuperato interamente i livelli industriali di pre crisi potendo vantare un sistema produttivo più solido e ampio, un livello di gestione partenariale delle imprese e soprattutto un livello inflattivo di fondo che l’ha subito messa in posizione di vantaggio, rispetto ai paesi mediterranei, al momento dell’adozione della moneta unica. Il nostro paese, nei momenti difficili, prima di adottare l’euro, utilizzava lo strumento della svalutazione competitiva della moneta per favorire e rilanciare l’economia e le nostre esportazioni. Si aveva così un’aggiustamento esterno del sistema tramite il cambio. Questa possibilità e ora impedita dalla gabbia monetaria dell’euro è il sistema è costretto ad attuare un progressivo aggiustamento interno attraverso licenziamenti, cali produttivi e chiusure d’aziende. Politici e manager, poi senza visione del futuro hanno contribuito a trasformare l’Italia in una colonia industriale.

Per recuperare terreno occorre una politica economica orientata verso uno sviluppo ad alta intensità di lavoro e di conoscenza, una feroce lotta alle mafie e alla corruzione, una sburocratizzazione della macchina amministrativa, un ripensamento complessivo del ruolo dell’università e del suo rapporto con l’economia, un grande progetto di rilancio infrastrutturale del sud, una trasformazione del sistema produttivo fortemente orientata al rispetto dell’ambiente con aiuti e incentivi alle aziende che abbattono la quota di co2 immessa nell’atmosfera ed utilizzano energie alternative nel processo produttivo, una revisione delle regole sul lavoro che favoriscano il rafforzamento dei diritti e della partecipazione dei lavoratori al governo delle aziende, una riduzione del potere degli azionisti nel dirigere le scelte di politica aziendale e nella distribuzione dei profitti, la profonda revisione delle regole e dei trattati, che governano l’economia e le istituzioni europee; solo così potremo sperare di rilanciare consumi e produttività, orientare l’economia in una direzione cooperativistica e solidale, tenere insieme liberismo  e democrazia e riassorbire quote sempre crescenti di disoccupati  rispettando l’ambiente e il dettato costituzionale che vede nel lavoro l’elemento cardine della società italiana.