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Realtà virtuale: nei panni di Freud per migliorare problem solving

Impersonare qualcun altro ha un potere maggiore di quanto non si pensi sulle proprie capacità di adempiere a particolari richieste ambientali. E’ quanto scoperto dall’ultimo studio neuroscientifico pubblicato sulla rivista Scientific Reports dalla Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati (SISSA) di Roma, in collaborazione con i colleghi di Barcellona. Ancora una volta, la realtà virtuale si è rivelata strumento utilissimo per indagare dinamiche cognitive fino ad oggi sconosciute: in una prima fase i volontari hanno interloquito con l’obiettivo della loro immedesimazione, Sigmund Freud, in qualità di pazienti. Dopo aver impersonato se stessi, potevano scegliere di abbandonare il proprio avatar e trasferirsi virtualmente in quello del padre della psicoanalisi, prendendone il controllo. Il risultato è stato una maggiore capacità di rispondere alle proprie richieste d’aiuto: nelle vesti di Freud i volontari erano capaci di darsi consigli migliori rispetto a quando riflettevano da soli, ciò indica che l’impersonamento quanto più verosimile può modificare i propri processi di pensiero.

Per capire a fondo il significato di questa scoperta bisogna aver chiaro il funzionamento della strumentazione, dispositivi Virtual Reality dotati di casco e sensori che offrono agli occhi del soggetto non solo un’imitazione fedele dello spazio virtuale a lui circostante, ma riproducono in tempo reale gli input costituiti dai suoi movimenti fisici in questo spazio. L’immediatezza dei segnali inviati e ricevuti dal casco è d’importanza cruciale per questo tipo di esperimenti, perché permette al soggetto di sentire più vera e personale la realtà che egli sa essere pur sempre virtuale, inibendo così risposte innaturali dovute alla consapevolezza che la situazione vissuta non è reale. Tale effetto è stato migliorato ulteriormente dalla presenza di uno specchio nella realtà virtuale, in cui i volontari potevano osservare il proprio corpo che in qualsiasi movimento corrispondeva alle immagini di S. Freud che ci sono arrivate dalla fine dell’800. Dunque, il termine più adatto al caso è “embodiment”, che in inglese indica l’impersonamento vero e proprio in un’altra entità con atteggiamenti, conoscenze, valori morali diversi dai propri.

“Darsi consigli funziona sempre, ma darseli come Sigmund Freud funziona di più”, ironizza la ricercatrice a capo dello studio, Sofia Adelaide Osimo, e rivela: “Negli esperimenti c’era un’ulteriore condizione di controllo, dove i movimenti degli avatar non erano sincronizzati con quelli reali. Questo riduceva notevolmente, se non addirittura annullava, l’illusione dell’impersonamento.” A fare la differenza in questi meccanismi cognitivi è il fattore dell’autorità con cui ci si impersona, infatti è stata descritta anche una fase preliminare della ricerca, in cui veniva testato il grado di conoscenza e di autorità percepita nella figura di Freud da parte dei volontari. La scoperta apre la strada a grandi svolte nel campo non solo cognitivo, dove sicuramente sarà di utile applicazione nello studio del problem solving e dei processi decisionali, ma anche in campo psicologico. In particolare, laddove una terapia con realtà virtuale è stata già improntata per la cura con successo di patologie come la schizofrenia, l’uso di questa tecnologia potrebbe fare da supporto anche nel campo clinico/psicoterapeutico, a seconda dell’esigenza da parte dei professionisti.