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Epilessia: educare le famiglie per prevenire morti improvvise

Cronica o transitoria, l’epilessia può portare ad una morte silente: una ricerca suggerisce che l’educazione delle famiglie e della società possa prevenire questi tragici decessi. Si tratta di un disturbo naurologico in cui la comunicazione nel sistema nervoso viene temporaneamente alterata in modo da produrre convulsioni che si ripetono ciclicamente nel soggetto, la causa può derivare da malformazioni del cervello, ictus, malattie contagiose che influenzino sempre in qualche modo l’attività cerebrale, ma anche esposizioni anomale a fonti di luce (lo sfarfallio del monitor o del televisore). Data l’imprevedibilità con cui l’epilessia insorge, anche il rischio di morte improvvisa (Sudden Unexpected Death in Epilepsy o SUDEP) è molto alto: 27 volte quello di una persona sana, ma ciò che più preoccupa è che l’esame tossicologico e l’autopsia non forniscono nessun dato sulla causa del decesso. Nella maggior parte, il disturbo colpisce bambini, che possono andare in contro a mortalità infantile (Sudden Infant Death Syndrome o SIDS) e ad oggi fermarne il destino a maggior ragione perché, nel momento in cui viene diagnosticata l’epilessia, le famiglie sono del tutto impreparate a gestirla o a rivolgersi agli specialisti del caso.

Il National Institute of Neurological Disorders and Stroke ha recentemente supportato uno studio in cui il Dr. Lawrence J. Hirsch ed i suoi colleghi hanno identificato un problema sociale mai affrontato finora. La discussione verteva sui motivi associati alla SUDEP e alla SIDS, in quanto la malattia non lascia traccia del suo decorso sul cadavere e dunque non può essere ascritta come causa di morte. “Queste morti non sono contabilizzati a seguito di epilessia”, afferma Orrin Devinsky, professore di neurologia, neurochirurgia e psichiatria e direttore del Centro Epilessia Comprehensive a New York University (NYU). “Invece, sono classificati come decessi dovuti a altre condizioni che sono direttamente o indirettamente, il risultato di epilessia. Questa pratica deve finire.” Secondo questi scienziati, se l’opinione pubblica prendesse atto delle 5.000 vittime che questa patologia miete ogni anno, rendendola una minaccia reale e non un’entità inafferrabile, si potrebbe approntare un piano d’intervento su tutto il territorio per, letteralmente, educare le persone ad affrontare la malattia.

Un altro elemento su cui puntare è il soccorso immediato del paziente durante le crisi epilettiche, che tra gli anziani potrebbe essere effettuato prontamente, ma spesso si ignora del tutto quanto la fascia d’età over 65 possa esserne colpita. Su questi soggetti l’autopsia non viene neanche eseguita, per cui della malattia non si ha alcun elemento: ciò accade quando questo disturbo neurologico ne causa uno o più cardiovascolari. Ad esempio, spesso una crisi epilettica viene scambiata per un ictus, che negli anziani è molto frequente. In tal modo, essa resta silente per tutta la vita ed oltre. Lo studio ha considerato, dunque, fascia infantile e senile in due parti del mondo opposte, ovvero rispettivamente Finlandia ed Ohio, negli Usa, ed gli esiti sono stati sconcertanti: i casi di SUDEP sono stati riscontrati in 0,01 casi su 1.000 annuali, mentre quelli di SIDS in 2,6 casi su 1.000 all’anno. Questi dati risultano allarmanti, ma i vari Paesi si differenziano anche per i metodi con cui la morte per epilessia viene diagnosticata: in Ohio si faceva riferimento ai certificati di morte, mentre in Finlandia sono state effettuate indagini che hanno considerato la cartella clinica ed il referto autoptico è stato consultato nel 70% dei casi, abitudine per nulla considerata negli Usa.

Secondo questi esperti, è bene fare informazione, perché qualsiasi episodio di morte apparentemente incidentale può nascondere un quadro clinico di epilessia, addirittura anche annegamento, collisioni in auto e biciclette, polmonite da aspirazione, astinenza da alcol, cadute, ustioni e suicidio. Inoltre, poiché la maggioranza dei casi viene  diagnosticata nei paesi in via di sviluppo, anche l’appartenenza a fasce socio-economiche basse può essere considerato un fattore di rischio.