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Lavoro e pensioni: rischio generazione perduta per i nati negli ’80

Nonostante la parziale ripresa del mercato del lavoro registrata a marzo, che ha spinto il tasso di disoccupazione ai minimi dal 2012, l’Istat rileva un panorama occupazionale sempre più disomogeneo, con le classi senior (dai 50 anni in su) avvantaggiate a scapito delle più giovani. La generazione ’80, definita da Draghi la più istruita di tutti i tempi, si conferma una delle più penalizzate in termini di lavoro e pensioni. L’Istituto nazionale di statistica conferma quindi le stime dell’Inps, secondo le quali un lavoratore tipo nato negli anni ’80 ha in media una discontinuità lavorativa di circa 2 anni, legata principalmente a periodi di disoccupazione. Questa discontinuità occupazionale è destinata a pesare sull’età pensionabile, che può raggiungere anche i 75 anni a seconda della durata della fase di disoccupazione.

Il mercato del lavoro sembra insomma privilegiare la categoria dei lavoratori più anziani, che nel corso del 2015 ha registrato il rialzo più significativo dell’occupazione, mostrando un tempo medio di ricollocamento di 4,8 mesi, contro i 5,8 del 2014 secondo il report 2015 di Uomo e Impresa. A farne le spese sarebbero proprio i lavoratori più giovani. La percentuale di italiani under 35 che trova un’occupazione entro 3 anni dalla laurea è pari al 57,5% secondo l’Eurostat. A fronte di una leggera crescita di tale dato rispetto al 2014, l’Italia resta in penultima posizione nella classifica europea, il cui fanalino di coda è la Grecia.

Indubbiamente su questo gap generazionale incide molto la maggiore flessibilità dei lavoratori più anziani, che data la vicinanza alla pensione sono maggiormente disposti ad accettare compromessi pur di rientrare nel mondo del lavoro, talvolta addirittura acconsentendo a percepire uno stipendio inferiore. Le imprese possono così avvalersi di manodopera con esperienza a basso costo, evitando di accollarsi l’onere della formazione di giovani usciti da poco dalle università.

Le ultime rilevazioni Istat mostrano una riduzione di 0,1 punto percentuale del tasso di occupazione nella fascia di età 25-34 anni, mentre il tasso di disoccupazione guadagna 0,4 punti percentuali. Il confronto con fasce di età più elevate evidenzia in maniera ancora più evidente il gap tra generazioni: nella classe 25-34 il tasso dei soggetti disoccupati ammonta al 17,9%, mentre tra gli over 50 i soggetti senza occupazione sono appena il 6%.

Alla luce della riforma Fornero, che penalizza percorsi di carriera non continuativi e redditi bassi e pondera l’età pensionabile in funzione dell’aumento della speranza di vita, sembra dunque che siano principalmente i disoccupati e gli inattivi tra i 25 e i 34 anni a rischiare di dover lavorare fino ai 75 anni. Secondo la legge Fornero chi ha iniziato a lavorare dopo il ’96 e che dunque andrà in pensione con il sistema contributivo potrà beneficiare della pensione anticipata (3 anni prima del requisito) o per anzianità o se è al di sopra di un certo limite di reddito.

I precari con discontinuità contributiva, i lavoratori autonomi con pochi versamenti e, in generale, tutti coloro che non raggiungeranno i livelli minimi, dovranno lavorare per 4 anni ulteriori rispetto al limite di vecchiaia. Ma la generazione ’80 potrebbe essere ulteriormente penalizzata: in caso di nuovo allungamento della speranza di vita, rischierebbero di andare in pensione oltre i 75 anni.