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Empatia: viaggio tra i suoi confini. Ecco i paesi più sensibili alle emozioni

“Prima di criticare qualcuno, cammina per un miglio nelle sue scarpe”. Questa espressione, diventata ormai di uso comune, discende dai proverbi dei nativi americani e racchiude in sé l’assoluto significato di empatia. L’empatia è collegamento tra umani, connessione di emozioni, condivisione di pensieri; è quella capacità di mettersi nei panni degli altri ed interpretarne le gioie e i dolori. Il popolo italiano, con il suo calore e il suo entusiasmo, sembrerebbe essere il perfetto candidato per vincere lo scettro del popolo empatico per eccellenza. In realtà, uno studio sull’empatia condotto dalla Michigan University ha dimostrato come spesso gli stereotipi non viaggino di pari passo con la realtà. Gli studi precedenti sulle capacità empatiche umane avevano analizzato i comportamenti di persone appartenenti alla stessa nazione. La nuova ricerca americana ha invece allargato la scala di riferimento, prendendo in analisi 63 paesi e misurando il grado di empatia delle loro genti attraverso un sondaggio online.

I risultati del test hanno permesso all’equipe di studiosi di comprendere, in linea generale, come sia possibile che in determinati popoli si riscontri una maggiore predisposizione alla sensibilità rispetto ad altri. Secondo William Chopik, uno dei principali autori del progetto, i popoli caratterizzati da un apprezzabile senso della collettività e da una buona dose di autostima sarebbero i più propensi a immedesimarsi nelle emozioni altrui. Ma qual è, dunque, il paese più empatico? A sorpresa, a detenere il record è l’Ecuador. A seguire Arabia Saudita, Perù, Danimarca, Emirati Arabi, Corea, Stati Uniti, Taiwan, Costa Rica e Kuwait. L’Italia si è dovuta accontentare di un onorevolissimo 20esimo posto (quarta tra i paesi europei). In ultima posizione, invece, la Lituania, apparentemente il paese meno empatico del mondo.

A stupire gli studiosi è stata la così alta posizione in classifica di popolazioni caratterizzate da un ampio grado di aggressività a carico dei centri vicini. In particolare, Arabia Saudita, Emirati e Kuwait hanno alle spalle una lunga storia di guerra contro il loro “vicinato”, che – a rigor di logica, a causa dell’innescarsi di un impulso alla solidarietà – dovrebbe essere invece il maggiore destinatario del comportamento empatico. “Il loro punteggio così alto in classifica – ha dichiarato Chopik – potrebbe essere dovuto a un limite del nostro sondaggio online, che non riesce a distinguere tra l’empatia delle persone provenienti da paesi diversi e quelle del proprio paese”. La presenza massiccia di stranieri all’interno di tre tra le più grandi realtà mediorientali avrebbe, secondo gli studiosi, rimescolato le carte in tavola.

A creare ulteriore sorpresa è stata la “bassa” posizione in classifica del paese che ha organizzato lo studio. Gli Stati Uniti sono risultati solo settimi, facendo riscontrare un continuo cambiamento delle tendenze e un’effettiva ingerenza nella sfera emotiva da parte di smartphone e Social Network che, almeno nei paesi più industrializzati, sarebbero i responsabili di un progressivo calo delle capacità empatiche. “Gli americani potrebbero risalire oppure scendere ancora fino ai gradini più bassi nei prossimi anni – ha specificato Chopik – questo dipenderà dai cambiamenti che avverranno nella nostra società nei prossimi 20-50 anni”. Le ricerche condotte su un gruppo di studenti americani nel 2011 da Sarah Konrath e Ed O’Brien, ora coautori del nuovo progetto, avevano già fatto emergere un notevole calo dell’empatia. L’ormai onnipresente vita “social” davanti al computer, unita a un considerevole aumento degli episodi di bullismo e di violenza nelle scuole e alla sempre meno presente partecipazione dei genitori nella vita dei figli potrebbero essere le cause principali dell’allontanamento dell’uomo dall’uomo. Questi fattori, di certo non relegabili alle sole società americane, potrebbero rappresentare il preludio di un futuro dove empatia e sentimenti si oscureranno fino a scomparire. Perderemo ciò che in realtà ci rende “umani”? Secondo gli studiosi, l’ultima parola spetterà al tempo.