La scoperta di Paolo Pellegrini, docente di Filologia e linguistica italiana all’Università di Verona, potrebbe riscrivere profondamente la storia dell’esilio di Dante Alighieri. Il professore, infatti, ritiene che la lettera inviata da Cangrande della Scala nell’agosto del 1312 al nuovo imperatore Enrico VII, possa essere stata scritta proprio dal “Sommo Poeta”.
Tutto ciò, naturalmente, non solo consentirebbe al mondo intero di venire a conoscenza di un nuovo scritto dell’intellettuale fiorentino, ma potrebbe anche portare a riscriverne la biografia concernente soprattutto i tempi e le fasi dell’esilio. Infatti, se si dovesse appurare che la suddetta missiva fu partorita dalla mente del poeta, ciò vorrebbe dire che questi soggiornò a Verona per un periodo molto più ampio rispetto a quanto si sia creduto fino ad oggi.
Paolo Pellegrini, nell’esporre la sua scoperta, ha affermato che la lettera era già stata pubblicata in passato e che fa parte di un’ampia raccolta di testi che mostrano l’arte della buona scrittura che Pietro dei Boattieri, notaio e maestro di “ars dictaminis” (l’arte dello scrivere bene), vissuto fra il Duecento e il Trecento a Bologna, aveva inserito in un codice che, successivamente, sarebbe poi diventato un manoscritto custodito oggi nella Biblioteca Nazionale di Firenze. In questo testo, Cangrande della Scala mette al corrente Enrico VII di una serie di contrasti emersi tra alcuni sostenitori del potere imperiale, riportando che Filippo d’Acaia (nipote dell’imperatore e vicario imperiale di Pavia, Vercelli e Novara) e Werner von Homberg (capitano generale della Lombardia) si erano scontrati duramente e che la tragedia era stata evitata solo grazie all’intervento di alcuni presenti che avevano provveduto a dividerli. Dopo essersi soffermato su quest’episodio, Cangrande rivela di essere piuttosto preoccupato, e invita l’imperatore ad intervenire affinché venga ristabilita la pace e, soprattutto, si evitino conflitti interni.
Dunque era un documento importante che trattava un argomento piuttosto delicato, e proprio per questo motivo è indubbio che l’illustre esponente della dinastia scaligera abbia deciso di rivolgersi ad una figura di spicco per la sua stesura. Di conseguenza, se davvero Dante Alighieri era a Verona in quegli anni, tenendo conto anche della profonda amicizia che li univa, risulta quasi scontato che il nobile si sia affidato al suo genio. Il docente veronese ha affermato che, in seguito ad una prima analisi della missiva, dal testo e dal registro linguistico sono emerse molte congruenze con lo stile dantesco. Ad esempio, è presente un richiamo a due “Variae” di Cassiodoro, già menzionati dal poeta fiorentino in altre occasioni: durante l’arenga del 1306, all’interno dell’epistola “Ai signori d’Italia” e, soprattutto, in un trattato di pace risalente all’ottobre del 1306 nella Lunigiana, in cui il grande artista compariva come “procuratore dei Malaspina”.
Inoltre, nella missiva di Cangrande, coloro i quali erano ritenuti responsabili di condotte malvagie verso l’Impero, vengono definiti “vasa scelerum”, definizione che non rientra di certo tra la latinità medievale della tradizione, ma che ricorda molto da vicino i “vasel d’ogni frodà” che nella Divina Commedia, al Canto XXII dell’Inferno, viene fatto esclamare da frate Gormita.
Naturalmente, lo studioso ha chiarito subito che ad oggi non si può ancora avere la certezza che il documento sia stato redatto da Dante, poiché andranno fatte ulteriori e approfondite verifiche sia sulle concordanze dantesche che sui “corpora” della latinità medievale. Infine non bisognerà tralasciare di studiare a fondo lo stile della prosa. Nonostante ciò, il professor Pellegrini ritiene comunque più che plausibile che, nell’inviare una comunicazione così importante all’imperatore Enrico VII, il signore veronese abbia voluto mettersi nelle mani sicure di un grande letterato come Dante Alighieri.
Nel momento in cui dovesse essere confermata una volte per tutte la “paternità” della missiva al “Sommo Poeta”, ciò naturalmente andrebbe a rivoluzionare tutto ciò che si è saputo fino ad oggi sul suo esilio da Firenze. Infatti emergerebbe che l’artista avrebbe soggiornato a Verona tra il 1312 e il 1320, smentendo di fatto la sua permanenza a Pisa o nella Lunigiana tra il 1312 e il 1316. Inoltre, anche in merito alla stesura del “De Monarchia” si dovrebbe riscrivere la biografia dell’intellettuale, perché a questo punto il saggio politico sarebbe stato scritto proprio nella città veneta e, al contempo, andrebbe rivalutata la figura di Cangrande della Scala, fino ad oggi apprezzato soprattutto per i suoi interventi in ambito amministrativo e militare, mentre probabilmente potrebbe aver ricoperto un ruolo ben più importante anche sotto l’aspetto politico e culturale, accogliendo e permettendo a Dante Alighieri di lavorare liberamente alle sue mirabili opere.
Patrizia Gallina