Articolo 18, tra insulti e riforme: cosa dice e cosa rappresenta

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Articolo 18: il grande tabù della nostra società. Tra chi desidera abolirlo, chi modificarlo, chi lo erge come estremo baluardo per la tutela dei lavoratori. Tuttavia, pochi sanno di cosa si stia realmente parlando e non per una loro mancanza: nel ring politico vengono buttati commenti, insulti, scontri tra sindacati, partiti, minoranze di partiti. Eppure nessuno parla nel merito: Bersani definisce “surreali” le proposte del premier Renzi, la Camusso definisce la politica del governo “Thatcheriana”, lo stesso Renzi risponde attaccando i sindacati. Raramente si parla di cosa sia l’articolo 18, di cosa rappresenti in Italia, perché e come debba essere superato.

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COSA DICE L’ARTICOLO 18 – Innanzitutto, è importante delineare il confine entro cui vige l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori: le medie-grandi imprese, con almeno quindici dipendenti (cinque se si tratta di imprese agricole). Per fare chiarezza è opportuno riportare le prime righe dell’articolo: “Il giudice, con la sentenza con la quale dichiara la nullità del licenziamento (…) ordina al datore di lavoro, imprenditore o non imprenditore, la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, indipendentemente dal motivo formalmente addotto e quale che sia il numero dei dipendenti occupati dal datore di lavoro”.

Si tratta, quindi, di una sanzione: non è vero che con l’articolo 18 gli imprenditori non possono licenziare. Grazie all’articolo 18, in caso di licenziamento illegittimo accertato dal giudice, i dipendenti vengono reintegrati nel loro posto di lavoro e hanno anche diritto ad un risarcimento dei danni: infatti, l’articolo “condanna altresì il datore di lavoro al risarcimento del danno subito dal lavoratore per il licenziamento di cui sia stata accertata la nullità, stabilendo a tal fine un’indennità commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto maturata dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione”.

Inoltre, al lavoratore è data la facoltà di risolvere il proprio rapporto di lavoro chiedendo “al datore di lavoro, in sostituzione della reintegrazione nel posto di lavoro, un’indennità pari a quindici mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto”. Pertanto, l’articolo 18 rappresenta un deterrente per l’imprenditore che voglia licenziare ingiustamente un suo dipendente: il lavoratore, infatti, potrà recarsi dal giudice e, una volta accertato il licenziamento illegittimo, richiedere la reintegra nel proprio posto di lavoro e un pesantissimo risarcimento in denaro. Inoltre, la riforma Fornero del 2012 ha complicato ulteriormente la situazione, suddividendo la tutela reintegratoria dei lavoratori in quattro categorie: piena, attenuata, meramente obbligatoria, obbligatoria ridotta.

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QUANDO SI PUO’ LICENZIARE IN ITALIA – In Italia un datore di lavoro può licenziare un proprio dipendente solo per giusta causa o per giustificato motivo: in tutti gli altri casi si tratta di licenziamento illegittimo (invalido se non presentato in forma scritta). Si ha un licenziamento per giusta causa in presenza di comportamenti talmente gravi da non consentire la prosecuzione del rapporto di lavoro: ad esempio in caso di furto di denaro o beni aziendali. Invece, il licenziamento per giustificato motivo soggettivo avviene quando da parte del lavoratore c’è un comportamento o un inadempimento degli obblighi contrattuali meno gravi rispetto alla giusta causa: ad esempio se il lavoratore abbandona il posto di lavoro senza giustificazione alcuna.

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IL JOBS ACT – La proposta di Matteo Renzi e del suo Jobs Act è quella di sostituire al reintegro nel posto di lavoro del dipendente ingiustamente licenziato, un indennizzo monetario. L’obiettivo è quello di trasformare un modello passivo ad un modello attivo: i dipendenti licenziati vengono tutelati e sostenuti economicamente, ma allo stesso tempo devono darsi da fare per trovare un nuovo posto di lavoro. In due parole: maggiore mobilità. Questo grazie ad un  nuovo ruolo dell’Agenzia Nazionale per l’impiego che dovrà riqualificare e ricollocare i disoccupati nel mercato del lavoro, come secondo il modello tedesco.

Tutto questo è legato alla creazione di contratti a tempo determinato a tutele crescenti, in relazione all’anzianità di servizio. In pratica “non è altro che il contratto a tempo indeterminato, regolato in modo meno rigido, con una garanzia di stabilità minima all’inizio e via via crescente con il crescere dell’anzianità”, come afferma Ichino. Tuttavia, questa scelta deve essere accompagnata da una riforma complessiva del mercato del lavoro, di cui si aspettano i dettagli dalla presentazione in Parlamento del pacchetto. Il timore di sindacati e della minoranza del Partito Democratico è che vengano messi in secondo piano i diritti dei lavoratori. Tuttavia, al nostro Paese servirebbe sicuramente di più un dialogo sereno e costruttivo tra le varie parti politiche, piuttosto che inutili attacchi personali e toni esasperati.