Morbo di Parkinson

2049: nuovi risvolti pandemici del morbo di Parkinson

Il morbo di Parkinson è uno dei disordini neurologici cronici e degenerativi che, al pari , della sindrome di Alzheimer, sta scoprendo una dimensione pandemica in divenire, i cui esiti saranno ben evidenti tra qualche decennio, se non affrontati in maniera tempestiva, non solo sul versante sanitario, ma anche e, soprattutto, sul lato degli  investimenti in politiche sociali.

In Italia, ad esempio, il problema è ben evidente nei drammi quotidiani del singolo, se è vero che lungo lo stivale le famiglie trovano scarso sostegno nelle istituzioni pubbliche, trovandosi soccorso nelle proprie di disponibilità ora economiche ora di supporto psicologico per le figure dei caregivers, che pagano un prezzo troppo alto.

La comunità scientifica lancia l’allarme per un rischio di pandemia che da qui al 2049 secondo i dati raccolti, specie nei paesi occidentali, ha visto un moltiplicarsi dei casi di disordine neurologico riconducibile al morbo di Parkinson, con stime che attualmente contano oltre sei milioni di individui affetti; lo scenario plausibile sarebbe quello di una vera e propria diffusione esplosiva della malattia neurodegenerativa che, in pochi decenni, porterebbe il numero dei malati a superare la cifra dei quindici milioni di individui.

Questa sarebbe la prospettiva di uno studio appena pubblicato su Jama Neurology condotto dalla University of Rochester, che avrebbe analizzato i fattori critici da cancellare se si vuole trovare un protocollo di cure in grado di contenere il dilagare del morbo di Parkinson.

 

L’analisi dei ricercatori statunitensi prende le mosse da un attento esame comparativo con l’evoluzione della ricerca impegnata da oltre un trentennio nella individuazione di una cura radicale per l’Aids, sebbene i protocolli clinici attuali consentono di allungare ampiamente le prospettive di vita dei soggetti affetti, in fase conclamata della patologia infettiva; basti pensare che sino a vent’anni fa, i soggetti positivi al virus, agente etiologico della sindrome immunodepressiva, avevano avanti la prospettiva di una vita breve, dal momento in cui il virus fosse entrato in fase clinica manifesta.

Ecco quindi che il lavoro della University of Rochester vuole trarre spunto di riflessione nella direzione di sensibilizzare da un lato la ricerca condotta, a trecento sessanta gradi, sul versante epidemiologico, genetico e molecolare, e dall’altro nello stimolare le istituzioni pubbliche all’adozione di una politica sanitaria, che consenta un incremento dei soggetti beneficiari delle cure.

 

Fonte: Jama Neurology