Siamo abituati a figurarci le Sirene come affascinanti donne dalla coda con lucenti squame, le vediamo nelle nostre televisioni a cantare, a innamorarsi di umani rinunciando alla loro immortalità per vivere sulla terra. Le troviamo stampate in verde sui bicchieri quando prendiamo un cappuccino da Starbucks e portiamo a casa la confezione come gadget.
Per rendere giustizia a queste fanciulle è bene ricordare quanto il loro mito sia in realtà legato alla nostra sete di conoscenza e ai nostri fallimenti come uomini corrotti dal rumore.
Ibridi dai volti femminili e dalle zampe rapaci, le Sirene sono sempre state paradigma della potenzialità persuasiva del canto, un linguaggio che si insinua nelle più remote caverne della nostra anima. La loro voce è espressione dello sconvolgimento, di una forza dionisiaca, irrazionale che spinge gli uomini alla pazzia. Ma non è sempre stato così. Alcuni dicono che fossero splendide fanciulle trasformate per invidia e che tale punizione non si oggettivasse solo nel loro aspetto fisico ma anche nella loro anima, fino a farle diventare adescatrici di uomini, o più precisamente, predatrici delle loro speranze.
Il silenzio delle Sirene
Nel piccolo mondo che ci accoglie possiamo trovare uomini avidi di lussuria e di potere accanto ad amanti della purezza e della condivisione, ma una cosa li accomuna: il desiderio di sapere. L’uomo è pervaso dalla necessità di conoscere il senso della sua esistenza e come essa si evolverà fino al suo spegnimento. Le adescatrici mitologiche rappresentano questo anelito e con le loro parole di onniscienza illudono anche i più astuti ingannatori. Mentre i greci attribuivano alle fanciulle mitologiche un canto che prospetta la conoscenza globale, a partire da Kafka, Eliot e Pascoli, la risposta che l’uomo riceverà alle sue domande sarà muta, un silenzio assordante e lo spettatore, soggiogato da un immenso amore, finirà contro gli scogli non più per l’utopia lusinghiera di una conoscenza bensì per rassegnazione. Mettiamoci nei panni di Odisseo, il mitico eroe alla ricerca della conoscenza che, giunto in prossimità dello scoglio delle Sirene e legato all’albero maestro, realizza che non ci sarà nessun canto, ma solo delle bocche socchiuse. È una scomparsa delle certezze così destabilizzante che egli preferisce rifugiarsi nell’illusorietà della finzione, anziché cercare le cause, di fatto inesistenti o, vogliamo sperare, solo irraggiungibili, di tale mancanza di risposte. Questa condizione potrebbe essere l’altra faccia di quella dantesca tesa a virtute e canoscenza per cui il farsi legare pare una ottima modalità per diminuire il peso della debolezza della volontà.
Introspezione
È chiaro a tutti che gli ascoltatori di un canto abbiano il diritto ed il dovere di interpretarlo tramite le proprie emozioni. È difficile invece rendersi conto che solo il silenzio e la sua autentica purezza permettono di ascoltarci nel profondo ma noi, animali metropolitani del ventunesimo secolo, ignoriamo tale verginità di suono per quanto le nostre orecchie ci implorino pietà. Fuggiamo dalla riflessione in assenza di distrazioni, tanto agognata dai pellegrini in cammino nel deserto alla ricerca della loro “Leggenda Personale” e preferiamo un amorfo universo sonoro, il rumore. Per esaltare questa riflessione immaginiamo delle Sirene bariste, come ci suggerisce Joyce, che appoggiano alle orecchie degli ospiti una conchiglia illudendoli di poter udire lo sciabordare delle onde e tanti ne rimangono prigionieri; di fatti, invece è semplicemente il suono del nostro sangue. Le Sirene ed il loro silenzio non trasportano in un mondo perfetto, ma conducono ad ascoltarci dentro. Non hanno nulla da insegnare, se non prendere atto della nostra biologica limitatezza.