Verità e giustizia, finalmente, potrebbero essere giunte anche per la famiglia Macchi. Dopo ben 29 anni di indagini incessanti, di testimonianze decisive e di lettere choc, gli investigatori hanno posto agli arresti Stefano Binda, un vecchio amico della 21enne Lidia Macchi, uccisa nel Varesotto con ferocia inaudita dopo essere stata violentata nella sua autovettura, nella quale fu ritrovata cadavere il 7 gennaio del 1987. Ad incastrare l’uomo, che condivideva con Lidia gli ideali cattolici promulgati dal gruppo Comunione e Liberazione, una inquietante poesia spedita ai genitori della ragazza 3 giorni dopo il ritrovamento del cadavere martoriato della Macchi: un componimento choccante, che racconterebbe in versi la terribile condanna a morte eseguita sulla 21enne.
VERSI TERRIBILI. Stefano Binda, finito in manette con la terribile accusa di omicidio perpetrato dopo una violenza sessuale ai danni di Lidia Macchi, continua a professare la sua innocenza. “Sono tranquillo – avrebbe confidato l’uomo al suo legale – Non c’entro nulla, aspetto che tutto si chiarisca”. Binda ostenta una certa calma, interrotta solo dal pensiero della sua anziana madre, ultrasettantenne, che vive con Binda ed un’altra figlia sposata in una villa nel Varesotto. Il presunto assassino di Lidia Macchi “Non riesce a spiegarsi come dopo tanti anni sia finito in questa situazione, continua a negare di aver ucciso lui Lidia”, ha raccontato ancora l’avvocato difensore di Binda che non si sbilancia ulteriormente, però, rimandando ogni dichiarazione al giorno dell’interrogatorio del GIP al sospettato, programmato per martedì.
Eppure, le prove raccolte dagli investigatori puntano dritte contro l’uomo, ritenuto attendibilmente l’autore di una choccante lettera giunta alla famiglia di Lidia Macchi tre giorni dopo il ritrovamento del cadavere della ragazza. Versi crudi, terribili, una sorta di confessione in rima dell’efferato assassino di Lidia che, non parco di averla costretta alla sua “prima volta” in maniera brutale e squallida, ha deciso di porre fine alla sua vita con 16 coltellate alla schiena, lasciandola agonizzare per ore prima di vederla spirare, dissanguata.
SACRIFICIO E SENSO DI COLPA. Potrebbe trattarsi di un raptus quello che avrebbe spinto Stefano Binda, subito dopo lo stupro della povera Lidia Macchi, ad assassinare la ragazza, nell’assurdo tentativo di purificare con la morte – quella della 21enne – quell’atto impuro e “bestiale”. “Non è stato amore ma mera meccanica congiunzione carnale alla quale ogni tipo di carezza è stata estranea – ha spiegato il GIP, parlando del terribile delitto del Varesotto – Non è così che doveva andare, non era certo così che Lidia doveva aver immaginato la sua prima volta, ma forse anche Stefano, preda delle sue ossessioni religiose, vive il “dopo” con rabbia e con la sensazione di aver distrutto tutto, soprattutto se stesso”. L’uomo, forse in un inconscio desiderio di costituirsi, aveva scritto in una delle sue agende, conservate con cura maniacale nella villa dove viveva con sua madre, una frase emblematica, vista dagli investigatori come un’esplicita ammissione di colpa: “Stefano è un assassino”.