Fu una delle storie che più segnò l’Italia degli anni ’80, in cui Alfredino Rampi lottava tra la vita e la morte nella campagna romana. Fu l’inizio della spettacolarizzazione televisiva, e in quel viavai di telecamere, c’è un pizzico di vita e di umanità rappresentato dal soccorritore Angelo Licheri.
Nel sentirlo parlare, dopo 40 anni, è come se da quel pozzo artesiano non sia mai uscito.
Racconta nel dettaglio la discesa, come la roccia gli abbia scorticato la pelle, dell’incontro con Alfredino Rampi e i numerosi tentativi di salvarlo.
Eppure, da quel pozzo di Vermicino che il 10 giugno 1981 ha inghiottito Alfredino, Angelo Licheri, il soccorritore volontario sardo che ha rischiato la vita, rimanendo sospeso a testa in giù per 45 minuti per tentare di salvare il piccolo di 6 anni, è uscito 40 anni fa.
Senza il bambino.
Angelo Licheri: il suo ricordo
“Vorrei che questa tragedia restasse nel cuore di tutti. Per me è impossibile scordarla, penso
ad Alfredino in ogni momento“, spiega il 76enne che allora di anni ne aveva 36 e lavorava come autista in una tipografia di Roma.
Non si sente un eroe, ma neanche uno sconfitto.
Non ha alcun rimpianto, al contrario pensa di aver fatto tutto il possibile, “e forse qualcosina di più“. Licheri racconta la sua vita 40 anni dopo la tragedia che lo ha segnato profondamente.
“Il diabete mi ha causato una gravissima infermità. Ho perso una gamba e non vedo più. Abito in una casa di riposo per anziani a Nettuno. Mi mantengo con la pensione e la vita scorre, pur con le sue difficoltà. E pensare che fino all’epoca di Vermicino non conoscevo alcun ospedale”, dichiara Angelo.
“La mia vita è cambiata. Se prima ero un ragazzo molto sveglio, scherzoso e solare, dopo Vermicino lo sono stato un po’ meno. Ho perso la mia vivacità. Quella tragedia me l’ha tolta“, conclude Licheri.
La tragedia del piccolo Alfredino
Il caso del piccolo Alfredo Rampi è tra le pagine più strazianti della cronaca italiana.
È il 10 giugno del 1981 a Selvotta, nella frazione di Vermicino. Un luogo di villeggiatura in cui la famiglia Rampi trascorre le vacanze: un posto tranquillo, tanto che papà Ferdinando quel pomeriggio acconsente alla richiesta di Alfredino di tornare a casa da solo, passando per i campi.
Il piccolo Alfredo a casa non ci tornerà mai più: sulla via del ritorno precipitò in un pozzo artesiano, e lì rimase, in attesa di un aiuto che nessuno, nonostante gli sforzi, riuscì a dargli, sino al 13 giugno, quando uno stetoscopio venne calato in quel buco profondo decine di metri e largo 30 centimetri e diede il verdetto che nessuno voleva sentire: il suo cuore aveva smesso di battere.
Per Alfredo la mobilitazione fu nazionale, e quei quattro giorni restano incisi nella storia con il corollario di personaggi che l’hanno resi così sentiti. Il brigadiere Giorgio Serranti, deciso a trovare il bambino a tutti i costi, diede l’allarme.
Fu lui a sentire i lamenti del bambino e a mettere in moto la macchina dei soccorsi.
Tutti i tentativi di salvare il piccolo Alfredo fallirono.
Per riportare Alfredino alla luce si è dovuto aspettare l’11 luglio, quando tre squadre di minatori restituirono il corpo ai genitori, che il 17 luglio diedero l’ultimo saluto al figlio.