Palermo, 19 luglio 1992, ore 16.58. Una fiat 126 rubata, parcheggiata in via Mariano D’Amelio, carica di esplosivo Semtex, deflagra in una violenta esplosione, provocando 24 feriti e 6 morti, tra i quali il giudice Paolo Borsellino. Questo è soltanto il tragico epilogo con cui si conclude una serie di eventi, riguardo ai quali ancora oggi l’opinione pubblica si interroga, che sconvolsero un’intera nazione e fecero da sanguinoso sfondo alla presunta trattativa stato-mafia. Oggi, a distanza di oltre vent’anni, un documento che fino ad ora era stato mantenuto nell’ombra dai vertici del potere politico giudiziario aiuta a far luce sugli avvenimenti di quel luglio del ’92.
Questo documento, costituito da un fascicolo anonimo di 8 pagine redatto a metà giugno del 1992 e contenente informazioni scottanti (in particolare quella relativa all’incontro tra l’ex ministro dc Mannino e Totò Riina), fu inviato a Borsellino in quegli stessi giorni. Il magistrato, particolarmente incuriosito da tale missiva, organizzò un incontro riservato con l’allora capitano del Ros dei carabinieri, Giuseppe De Donno, ritenuto secondo voci ricorrenti tra i suoi stessi colleghi il cosiddetto “Corvo due“, autore del fascicolo.
Secondo i pm che stanno indagando sullo scenario relativo alla strage, i vertici del Ros che hanno sempre sostenuto che durante tale incontro Borsellino e De Donno parlarono esclusivamente dell’argomento mafia-appalti avrebbero mentito. Il motivo di tale depistaggio sarebbe stato quello di insabbiare ciò di cui realmente il magistrato e il capitano avrebbero discusso: la trattativa stato-mafia. Questa pista è confermata dal fatto che, alcuni giorni dopo, rispondendo alla giornalista Liliana Ferraro, che gli stava raccontando della trattativa avviata dal Ros con Vito Ciancimino, boss di Cosa Nostra, Borsellino rispose di essere già a conoscenza del fatto e di volersi assumere il compito di far luce sulla questione.
Il primo luglio del ‘92 il procuratore di Palermo, Pietro Giammanco, incaricò tramite delega il comandante del Ros, Subranni, e il dirigente del Servizio Centrale Operativo della Polizia di Roma di rintracciare e recuperare il fascicolo nel quale pare fosse contenuto il nome di un altro esponente della DC, Calogero Mannino. A questo punto ebbe inizio una pressione mediatica al fine di minare alla base la credibilità di tale documento, pressione che culminò con un comunicato Ansa, in cui i vertici investigativi definivano assolutamente prive di fondamento le rivelazioni del Corvo.
Il giorno 17 luglio, Borsellino confessò alla moglie che “Subranni era punciuto“, termine che in gergo mafioso sta ad indicare un affiliato di Cosa Nostra. Ironia della sorte,il giorno dopo, sotto casa della madre presso la quale era stato in visita, il magistrato Borsellino venne ucciso senza pietà, assieme a 5 agenti della sua scorta personale. Assieme a lui, la mafia riuscì a far tacere tutte le voci che avevano fatto tremare fin troppo i palazzi del potere. Qualche mese dopo, fu sempre il comandante del Ros a sigillare ogni verità, suggerendo al procuratore Aliquò di archiviare definitivamente le indagini sul dossier anonimo.
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