Nonostante siano da sempre considerate il motore dell’economia nazionale, le Pmi (piccole e medie imprese) italiane vengono prese di mira dall’agenzia di rating Moody’s. L’agenzia ha infatti di recente pubblicato un report che analizza le differenze tra le Pmi dei diversi paesi europei, dal quale emerge che le aziende italiane hanno una performance significativamente inferiore a molte delle cugine europee. In termini di tassi di fallimento le PMI nostrane si classificano in cima alla lista, davanti a Francia, Belgio, Spagna, Gran Bretagna e persino Portogallo.
A fronte di un considerevole contributo al valore aggiunto domestico – rappresentano oltre il 67% del valore aggiunto nazionale, la percentuale più alta tra tutti i paesi esaminati nel report -, le Pmi italiane restano fondamentalmente deboli, “con un saldo aziendale fermo ai tempi della crisi del 2008 e un tasso di mortalità delle imprese che supera di oltre l’1% quello di natalità”. I dati presi in considerazione nel dossier sono presi dalle banche dati di Istat, Banca d’Italia e Cerved. Tra i paesi analizzati, la Gran Bretagna è quello che si rivela maggiormente dinamico, mostrando un valore aggiunto cresciuto dell’11.6% nel 2014 contro il 3.3% della media europea. Gran parte del merito di questa performance positiva è dei fondi di investimento e delle misure di politica economica adottate dal governo inglese. Secondo Moody’s queste ultime, in particolare, hanno consentito non solo la crescita delle Pmi ma anche il calo della disoccupazione, che è scesa dall’8.1% del 2011 al 5.1% del 2015.
L’Italia deve invece accontentarsi di una leggera diminuzione del tasso di nuove sofferenze bancarie delle micro imprese, che sono passate dal +3.9% del 2014 al +3.6% del 2015, una diminuzione che tuttavia Moody’s considera troppo graduale. Quello registrato nel 2015 è infatti il primo calo annuale della crescita dal 2011. Analoga considerazione per quanto riguarda gli effetti delle misure di politica economica intraprese dal governo in materia di riduzione dei crediti deteriorati e in sofferenza. Tali misure si stanno rivelando troppo lente e in grado di raggiungere risultati solo a medio lungo termine. A questo si aggiunge il dato preoccupante sul tasso di mortalità delle Pmi, che supera di oltre un punto percentuale quello di natalità (8.5% contro 7.1%). A questo proposito Moody’s segnala come non ci siano sostanziali differenze tra Nord e Sud: nel Mezzogiorno i fallimenti sono più numerosi, ma lo sono anche le nascite di nuove imprese.
A cosa è dovuta la maggiore debolezza delle PMI italiane? Il professor Alessandro Minichilli della Bocconi punta il dito contro l’eccessiva esposizione nei confronti delle banche, che storicamente hanno quasi monopolizzato i finanziamenti verso le piccole e medie imprese nazionali. Gli operatori di private equity e venture capital, molto attivi all’estero (in particolare in Gran Bretagna), solo di recente hanno iniziato a farsi strada nel mercato italiano. A questo va aggiunta la scarsa internazionalizzazione e diversificazione delle imprese italiane, troppo spesso focalizzate su singole nicchie di mercato e pertanto maggiormente esposte alle fluttuazioni economiche.
Pronta la risposta della Cna. Il segretario generale della Confederazione dell’artigianato e della piccola media impresa Sergio Silvestrini ha ribattuto che quella di Moody’s è un’analisi parziale e ingenerosa, dal momento che “per performare meglio è necessario anche un contesto in grado di supportare le aziende: meno burocrazia, più credito, pagamenti puntuali e un mercato con regole più amiche dell’impresa”. Secondo la Cna il vero problema è dunque l’eccessiva burocrazia e i troppi vincoli di accesso al credito bancario.